Lo sviluppo di Ghost of Yōtei non è stato solo una questione di game design e sceneggiatura. È stato, prima di tutto, un viaggio. Un viaggio fisico e culturale che ha portato il team di Sucker Punch a immergersi nei paesaggi, nella storia e nell’anima del Giappone, per creare un mondo che fosse sì immaginario, ma autentico nei suoi dettagli più profondi. A seguire tutti i dettagli svelati da Sony tramite il PlayStation Blog.
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Oltre il mito del samurai: un’esperienza vissuta sul campo
Nate Fox, direttore creativo dello studio, ha raccontato quanto il viaggio in Giappone abbia rappresentato un momento di svolta per l’intero team. Visitare luoghi iconici come Tsushima non è stato un semplice esercizio di raccolta di immagini o di studio di architetture: è stato un confronto diretto con la memoria storica, con il vento tra i pini, con il silenzio pesante di templi e spiagge dove la storia si è fatta sangue e sacrificio.
L’obiettivo non era ricreare, ma trasmettere un’emozione concreta. Sentire sulla pelle ciò che i personaggi del gioco avrebbero dovuto provare.
Dall’isola alla frontiera: perché l’Hokkaido
Per Ghost of Yōtei, ambientato nel remoto Hokkaido conosciuto nel 1603 come Ezo, Sucker Punch ha replicato l’approccio, spingendosi in territori selvaggi e poco conosciuti. L’Hokkaido era una frontiera, abitata da pionieri Wajin e popolazioni indigene Ainu, dove la bellezza della natura conviveva con la minaccia costante del gelo e degli animali selvatici. Ed è proprio qui che prende forma Atsu, la protagonista, una donna consumata dalla vendetta al punto da essere temuta come un onryō, uno spirito furioso.
In un contesto tanto duro quanto suggestivo, l’Hokkaido si è rivelato perfetto per costruire un racconto potente e ancestrale.
La natura selvaggia come cuore pulsante del gioco
Due team di sviluppo sono stati inviati in zone diverse dell’isola. Nate Fox ha guidato il gruppo che ha esplorato lo Shiretoko National Park, dove la forza primitiva della natura domina ogni cosa. Tra scogliere battute dal vento, boschi segnati dagli orsi e una costante percezione di pericolo, il team ha compreso che nel gioco non sono solo i nemici a incutere timore, ma il mondo stesso. La natura è viva, e impone rispetto.
“Non eravamo noi i padroni di quel luogo”, ha affermato Fox. “Eravamo ospiti. E questo sentimento ha plasmato ogni scelta nel game design”.
Il Monte Yōtei: simbolo di dolore e memoria
Uno dei luoghi più significativi visitati dal team è stato il Monte Yōtei, soprannominato “la montagna femmina” dal popolo Ainu. Con la sua vetta imponente che trafigge le nuvole, è diventato per Atsu un emblema personale: il ricordo della sua famiglia perduta, la sorgente della sua rabbia, e la forza che la guida.
Il simbolismo legato a questa montagna non è stato forzato, ma scoperto parlando con la gente del posto, ascoltando leggende e storie tramandate, e lasciandosi guidare da una narrazione già impressa nel paesaggio.
Dal rispetto nasce l’autenticità
Il viaggio non è stato solo geografico, ma culturale. Gli sviluppatori, pur consapevoli della loro prospettiva occidentale, hanno voluto costruire un mondo credibile senza scadere nel cliché. Per farlo, hanno collaborato con storici, guide locali, consulenti Ainu, visitando luoghi sacri e aree protette. L’intento non era quello di “copiare” il Giappone, ma di comprenderlo per poterlo reinterpretare in modo sincero.
Il risultato? Un mondo immaginario che non pretende di essere reale, ma che suona vero in ogni sua vibrazione. Dall’eco del vento tra i rami al dolore silenzioso dei protagonisti, Ghost of Yōtei promette di essere non solo un videogioco, ma un ponte tra cultura, emozione e avventura.